Era il 1940, l’altro secolo ormai, ed ero una ragazzina di quattordici anni che viveva con la famiglia a Dolegnano, una frazione di San Giovanni al Natisone. Eravamo una famiglia di contadini, mezzadri per l’esattezza, e come tutte le altre famiglie del paese si viveva in grandi ristrettezze. Sulla tavola non mancava però mai la polenta e quello che l’orto e il cortile poteva offrire. Il pane era un lusso e quando lo si consumava era grande festa. Per i vestiti meglio non parlare. Ci si metteva addosso quello che si poteva e d’inverno era ancora peggio. Gonnellina a pieghe, blusa, maglietta di lana e calzettoni fatti rigorosamente in casa, con ai piedi un paio di zoccoli di legno chiusi sulla punta, era la mise della mia gioventù. Per la festa invece, c’era il famoso vestito che serviva per le grandi occasioni, per la messa mattutina e per la funzione serale. Ai piedi, questa volta un paio di scarpette nere allacciate con un bottoncino. Si usavano così poco che il piede accresceva senza averle consumate. Per questo le scarpe della festa erano ereditarie, perché passavano da sorella a sorella. Come dicevo prima, a casa mancavano soldi per vivere degnamente e come tutte le mie amiche avevo trovato lavoro prima in filanda a Brazzano e poi a Manzano, in una fabbrica di cerchioni di bicicletta (quella volta erano costruite in legno). Se in filanda andavo a lavorare a piedi, a Manzano andavo in bicicletta e dovevo fare cinque chilometri sia all’andata che al ritorno. Era d’estate la volta che io e le mie amiche venimmo sorprese lungo la strada da un forte temporale. Le strade non erano asfaltate, ma lastricate di ciottoli; lungo queste c’erano dei fossati di raccolta dell’acqua piovana. Spaventate dalla violenza del vento e dalle sferzate della pioggia, ci siamo riparate lungo uno di questi fossi, in attesa che il maltempo cessasse. L’ acqua intanto si alzava all’interno del fosso e il fango ci imprigionava i piedi fino oltre le caviglie. Quando tutto ciò cessò, ci ritrovammo bagnate come pulcini; io inforcai la bicicletta e mi trovai, oltre che tutta infangata, anche senza uno zoccolo. Era rimasto incastrato tra il fango e l’acqua e senza speranza di poterlo recuperare. Ritornai a casa tutta avvilita e mi costò confessare alla mamma di aver perduto lo zoccolo. All’epoca guadagnavo 15 centesimi all’ora e alla fine della settimana portavo a casa poco più di 6 lire. Un altro paio di zoccoli costavano poco meno di 1 lira e la mia famiglia avrebbe potuto soffrirne.
Melodia di Isabella, marzo 2012
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di Osiride Brovedani
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