Era l’anno 1935. Avevo tredici anni e a Trieste quella volta si pescava ancora il tonno.
Ma prima un po’ di storia. Sin dall’antichità la pesca del tonno era, nell’Adriatico orientale, una risorsa importante e a Trieste, in particolare, le “tonere” operavano subito fuori la città, da Barcola sino a Duino. In prevalenza, il tonno migrava in estate lungo le coste adriatiche e raggiungeva in agosto la riva tra Barcola e Sistiana. Questo grosso pesce segue i gruppi di sardelle o di sgombri, ai quali dà la caccia. I pescatori salutavano con gioia il loro arrivo perché l’esperienza loro insegnava che poco dopo vi erano i tonni.
A spiarne l’arrivo c’era un’apposita vedetta appostata, durante la stagione, sul ciglione carsico. Le “vedette” avevano anche il compito di dirigere la “tonera”: una grande rete veniva stesa perpendicolarmente alla costa per circa duecento metri e, al grido: “Voh, in tera!” della sentinella, la barca virava a nord – premando – se i tonni erano di “grassa”, o a sud – stegando – se erano di “magra”. Alle fasi finali della pesca partecipavano, talvolta, anche dei pescatori a bordo dello zoppolo, una particolare imbarcazione ricavata scavando un tronco d’albero. La rete, chiamata “sciabaccona”, era costituita da due pareti di filato relativamente leggero a maglia larga e da una parte centrale a filato più robusto. Destinata a sostenere tutta l’impetuosità delle fasi finali della pesca. L’imbarcazione, la “tonera”, era una barca di circa dodici metri di lunghezza dalle fiancate arrotondate, con larghezza approssimativa di due metri e mezzo e con un’ottantina di centimetri d’altezza. Tornando al discorso iniziale, anch’io andavo ad aiutare i pescatori nel porticciolo di Santa Croce. Ricordo che c’erano tre uomini sulla collina: i “colnasi”, che stavano a destra e a sinistra, mentre nel centro c’era il “comandante”. Il quarto uomo stava sulla barca e attendeva l’ordine del comandante che dall’alto gridava: ”Avoc!” (avanti! In sloveno). I tonni non erano molto grossi, pesavano in media 10 – 15 chili. Nella rete rimanevano impigliati anche 300 tonni. Una volta piena la rete veniva tirata a riva anche da cinquanta/sessanta persone. L’ultimo aveva il compito di chiudere la rete. Se durante l’operazione di tiraggio la rete rimaneva impigliata ci mandavano sott’acqua a liberarla: “Luciano! C’è una tenuta!” E allora io mi tuffavo per liberare la rete. Con il coltello si sgozzavano i tonni e noi potevamo prendere il fegato e il cuore, che poi facevamo fritti. La laringe spettava di diritto al capo barca. Tutto il pescato veniva caricato su una barca a motore per essere trasportato in pescheria a Trieste. Quando l’operazione era terminata venivamo ricompensati con un pezzo di tonno. Dopo una pesca così ricca si faceva una gran festa, o meglio, la facevano i pescatori di tonno, mentre noi ci accontentavamo così…
Melodia di Luciano, ottobre 2013
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di Osiride Brovedani
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